Le nuove frontiere della ricerca
scientifica:
divulgazione etica e transdisciplinarità
I
sostanziali e repentini cambiamenti socioculturali e l’evoluzione
del ruolo della scuola e della famiglia nell’educazione dei giovani
ci dovrebbero far riflettere su uno dei tanti paradossi che negli
ultimi decenni stanno caratterizzando la formazione delle nuove
generazioni. Se da un lato ciò ha prodotto e veicolato nuovi
contenuti disciplinari e nuove metodologie, dall’altro ha innescato
una vera e propria emergenza educativa.
Sebbene
oggi l’educazione ad una cittadinanza attiva non possa più essere
scissa dall’educazione ambientale, alimentare e, più in generale,
alla salute consapevole e responsabile, l’adeguamento dei programmi
scolastici, degli obiettivi e delle finalità viene sempre più
spesso gestito attraverso politiche governative volte
all’appiattimento dei livelli di conoscenze, competenze e abilità
degli studenti di ogni ordine e grado. Ciò si traduce in realtà,
aldilà delle tante e belle parole, in un abbassamento degli
obiettivi, in nome di una pseudo democraticità dell’istruzione.
Questo modus operandi viene applicato non solo ai singoli contenuti
disciplinari, ma influenza l’intera funzione educativa dei docenti.
Che valore la società attribuisce oggi all’apprendimento, al
pensiero divergente, al merito e all’impegno scolastico? La
formazione degli studenti risulta in linea con le nuove esigenze
culturali? E soprattutto la cultura è ancora considerata un valore
imprescindibile su cui formare la propria personalità? Sono tutti
interrogativi legittimi a cui però non sempre riusciamo a dare una
risposta semplice ed univoca.
Nonostante
il supporto delle nuove tecnologie, la formazione degli studenti,
soprattutto in ambito scientifico, presenta delle forti criticità.
Non di rado infatti accade che l’educazione alimentare venga scissa
da quella ambientale, che docenti diversi trattino gli stessi
argomenti veicolando teorie contrastanti spesso slegate dalle
acquisizioni degli studi più recenti, che la letteratura a cui si fa
riferimento sia visibilmente obsoleta o che contenuti “sensibili”
vengano trattati in modo superficiale e frettoloso per l’oggettiva
mancanza di tempi, strutture e mezzi adeguati (problematiche che
contraddistinguono e affliggono la scuola italiana oggi più che
mai). In questo modo le nuove acquisizioni della ricerca scientifica
non sempre vengono veicolate secondo un progetto educativo continuo e
diffuso.
Qualcosa si perde per strada e molto spesso questo qualcosa
non è di lieve entità. Il confine tra semplificare e banalizzare è
molto sottile e non di rado accade che i risultati di studi
scientifici vengano travisati perché tradotti e/o divulgati in modo
superficiale. Per questo motivo diventa quanto mai necessario fondare
una vera e propria etica della comunicazione scientifica (e non
solo).
Negli
ultimi anni stiamo inoltre assistendo ad un fenomeno tanto proficuo
quanto preoccupante: l’accesso pressoché illimitato alle
informazioni veicolate attraverso il web, i social networks e i media
classici quali stampa, radio e tv. Alla democraticità
dell’informazione, che fa sì che tutti gli utenti alfabetizzati
possano accedere ad un certo tipo di contenuti, si oppone l’uso il
più delle volte propagandistico e commerciale che si fa di tali
contenuti da parte di chi li veicola, seguito dalla ricezione spesso
passiva, indiscriminata, semplicistica dell’utente medio che li
recepisce e che poi a sua volta li condivide, innescando un circolo
vizioso da cui non è facile uscire. Tale condivisione segue spesso
lo schema “copia e incolla”, un automatismo pericoloso che viene
attuato sia secondo una dinamica orizzontale (nel gruppo dei pari)
che verticale (secondo un processo di inculturazione). La
discriminante tra la cultura fai da te e quella basata su prove di
evidenza scientifica consiste proprio nella facoltà di poter
discernere e utilizzare in modo corretto e proficuo la valanga di
informazioni da cui siamo letteralmente subissati quotidianamente.
Solo l’utente esperto, consapevole e responsabile è infatti in
grado di oltrepassare il confine della passiva ricezione, usando come
chiave il pensiero critico.
La
generazione dei “nativi digitali” figlia del Duemila (quella che
spesso in altre sedi ho definito “generazione copia e incolla”)
vive il paradosso di avere molte più risorse culturali a
disposizione, a cui si accede con estrema facilità, ma una minore
abitudine all’utilizzo critico. Spesso tale abitudine agli
automatismi e alle eccessive facilitazioni si traduce in una minore
attitudine al pensiero indipendente, data l’ormai provata
retroazione della presenza/assenza di determinati stimoli ambientali
all’apprendimento sulle capacità cognitive, processo che innesca
un pericoloso feedback negativo. Soprattutto il campo della medicina,
della farmacologia e del complesso e articolato ambito della
nutrizione sono stati investiti dalla “globalizzazione
dell’informazione”, il che ha avuto come diretta conseguenza
l’accesso ai contenuti disciplinari, riservati fino a qualche
decennio fa solo agli adepti e agli specialisti del settore, a tutti
gli utenti del web. Se da un lato ciò ha reso il cittadino più
curioso e più motivato ad apprendere e ad informarsi, dall’altro,
in mancanza di un background culturale specialistico, l’utente
resta disarmato di fronte alla vastità delle informazioni a
disposizione spesso in contraddizione tra loro. Scuole di pensiero,
programmi dietetici e terapeutici, metodi e approcci diversi
nell’analisi delle abitudini alimentari, propagandati e/o confutati
attraverso i media, lasciano il consumatore privo di adeguata
formazione scientifica letteralmente disorientato, in quanto
sprovvisto dei mezzi adeguati per poter selezionare le fonti in modo
proficuo, farne una lettura consapevole, per poter poi apprendere in
modo critico.
Un
apprendimento di questo tipo è possibile solo attraverso i canali
istituzionali, luoghi in cui la conoscenza veicolata è frutto di
studi, ricerche e metanalisi validate dalla comunità scientifica
internazionale e in continuo aggiornamento. Il fatto che il campo
dell’alimentazione e della nutrizione sia oggi letteralmente preso
d’assalto da specialisti del settore, operatori sanitari, agronomi,
giornalisti, esperti di comunicazione, gastronomi, sociologi,
psicologi, appassionati della materia e semplici curiosi di turno,
testimonia il forte interesse scientifico, culturale e commerciale
che tali studi hanno prodotto e stanno producendo. Il dibattito tra
medici, nutrizionisti, dietisti e altre figure professionali (in
ambito sanitario e non) è attualmente molto vivace e caratterizzato
a volte anche da toni accesi, il che testimonia che gli studi sono in
fieri e molto resta ancora da ricercare, comprendere, apprendere e
comunicare nel modo più appropriato. Solo
attraverso la conoscenza, infatti, possiamo liberarci della paura e
della diffidenza verso l'ignoto. Comprendere, infatti, significa
dissolvere i dubbi, osservando la natura con occhi attenti e
rinnovata sensibilità.
Fortunatamente
stiamo assistendo ad una vera e propria rivoluzione della e nella
ricerca scientifica, caratterizzata da un approccio per quanto
possibile interdisciplinare, proiettato verso l’orizzonte della
transdisciplinarità. Ciò permette di evitare di cadere nella
“trappola” dell’iperspecializzazione che, focalizzando
l’attenzione sui dettagli, fa correre il rischio di perdere di
vista la visione globale e le interconnessioni tra le parti. Il
metodo dovrebbe essere quello di trattare un argomento da almeno due
prospettive diverse ma complementari (ad esempio quella delle scienze
biomediche e quella delle scienze umane), tentando poi una reductio
ad unum
prodotta dalla convergenza dei linguaggi delle diverse discipline,
indagate con approccio sistemico. Ci si riferisce in particolare a
quanto auspicato da Thomas Kuhn quando sosteneva la necessità di
scienziati/filosofi bilingue, in grado cioè di operare secondo una
visione transdisciplinare, liberi dai confini dei linguaggi specifici
delle loro stesse discipline.
È ciò che Francesco Bottaccioli definisce “sguardo sistemico”,
quando, alla luce delle acquisizioni della
psiconeuroendocrinoimmunologia e dell’epigenetica, sostiene che
occorre “evidenziare il fondamento comune delle cosiddette scienze
della vita e delle cosiddette scienze dell’uomo”, in quanto
intrinsecamente connesse, “non separabili, e quindi non studiabili
isolatamente l’uno dall’altro”.
La necessità della transdisciplinarità è stata ben evidenziata
anche da Fabio Marzocca che, operando una breve sintesi diacronica,
partendo dal contributo dello psicologo Jean Piaget fino ad arrivare
alle riflessioni del filosofo della scienza Ervin Laszlo e del fisico
Basarab Nicolescu, sostiene “la necessità di una cooperazione tra
le discipline”.
In particolar modo chiarisce che “le discipline sono una necessaria
auto-limitazione introdotta nella scienza, ma i loro confini
dovrebbero essere considerati permeabili, espandibili e trasferibili.
Solo quando siamo in grado di superare questi limiti, allora la
conoscenza potrà allargarsi oltre i confini disciplinari”. Non è
un caso che per spiegare le differenze tra i termini
multidisciplinare, interdisciplinare e transdisciplinare, Marzocca
utilizzi una sorta di “esemplificazione gastronomica”. L’esempio
di un primo banchetto in cui ogni ospite porta il piatto che ritiene
opportuno, senza alcun accordo con gli altri invitati, di un secondo
in cui si trovano piatti diversi, dal momento che ogni invitato sa in
anticipo ciò che gli altri non porteranno, e di un terzo in cui
tutti gli ospiti hanno collaborato alla preparazione delle pietanze,
utilizzando gli ingredienti e le risorse professionali a
disposizione, indicano rispettivamente l’approccio
multidisciplinare, interdisciplinare e transdisciplinare. Dalla
semplice giustapposizione si passa ad una suddivisione di competenze,
per arrivare poi ad un vero e proprio lavoro di squadra, in cui
l’apporto specifico del singolo non è più riconoscibile nel
lavoro finale e in cui nessuna professionalità avrà la leadership.
E non è un caso che le nuove frontiere della ricerca scientifica in
campo biomedico (e non solo) stiano proprio indagando contenuti
transdisciplinari quali epigenetica, PNEI, nutrigenetica,
nutrigenomica, neuroscienze e sensorialità, ambiti in cui la figura
dello scienziato bilingue di cui parlava Khun è diventata
indispensabile.