sabato 13 ottobre 2018

Il mio percorso del benessere: come ho curato la mia dipendenza dagli zuccheri




Che gli zuccheri creino dipendenza è vero e l’ho sperimentato di persona. Fino a qualche anno fa sentivo il “bisogno” di qualcosa di dolce al termine del pasto, mi capitava di mangiare biscotti, dolciumi vari, cioccolatini e usavo tanto zucchero nel the. Poi, piano piano, ho voluto sperimentare su me stessa gli effetti di un regime alimentare diverso. Giuro che non ho fatto alcun sacrificio, anzi mi è venuto spontaneo e naturale ed è stato un vero e proprio piacere. Più studiavo e mi informavo, più mi veniva la curiosità di mettere in pratica quello che chiamo “il mio percorso del benessere”.

Ora a casa mia non ci sono più merendine, dolciumi, snack, dessert industriali, prodotti con zuccheri aggiunti... a dir la verità non c'è neanche un pacco di zucchero. La cosa meravigliosa è che non solo non li mangio più, ma non mi viene alcuna voglia di comprarli quando li vedo in bella mostra al supermercato. Mi concedo una fettina di dolce casalingo se me lo offrono, qualche quadretto di cioccolata fondente (quella con almeno il 60% di cacao, non quella che spacciano per fondente anche se non lo è), marmellata fatta in casa a colazione, frutta secca (datteri, fichi, albicocche, mandorle, noci, nocciole) e dolcifico tassativamente con miele sciroppo d’acero, di agave o di fiori di sambuco (che sono anche più gustosi dello zucchero).

La mia giornata inizia con una sana colazione. Rigorosamente seduta a tavola, senza fare corse per casa. Mi sveglio 15 minuti prima e vi assicuro che quando diventa un’abitudine non è affatto un sacrificio. D’inverno bevo the o tisane dolcificate con miele crudo (quello che cristallizza, non quello liquido), a cui aggiungo due fette biscottate integrali con un pò di marmellata di frutta biologica o del miele (mi piace variare, ma in genere uso quello di arancio, limone, eucalipto, acacia e tiglio) e un frutto. D'estate a volte mangio uno yogurt cremoso (adoro quello greco), a cui aggiungo frutta fresca e avena (non uso cereali dolcificati di produzione industriale… se voglio qualcosa di particolarmente gustoso aggiungo all’avena pezzetti di frutta secca e qualche scaglia di cioccolato fondente extra). Mi diverto anche a preparare tanti frullati, spremute e smoothies fatti con frutta fresca di stagione.

A pranzo e a cena, variando le verdure, i cereali e l’apporto proteico si possono preparare un’infinità di piatti. D’estate il mio pranzo tipico è una bella insalata piena di verdure diverse a cui aggiungo o noci o filetti di salmone o scaglie di parmigiano e dei crostini di pane integrale.

E per quando mi viene fame nell’arco della giornata ho trovato una soluzione semplice e pratica: qualche nocciola, qualche mandorla o qualche gheriglio di noce… senza esagerare, dato che contengono molte calorie. Se non vado di fretta e non lavoro, invece, mangio frutta fresca (in genere una bella banana).

Vi assicuro che non è un sacrificio. Mi sento molto meglio e sono riuscita a risolvere tanti problemini di salute senza alcuna terapia farmacologica. Ricordate però che una dieta equilibrata è inutile se non camminate, non fate le scale, non vi muovete!

venerdì 5 ottobre 2018

Le nuove frontiere della ricerca scientifica

Le nuove frontiere della ricerca scientifica:
divulgazione etica e transdisciplinarità



I sostanziali e repentini cambiamenti socioculturali e l’evoluzione del ruolo della scuola e della famiglia nell’educazione dei giovani ci dovrebbero far riflettere su uno dei tanti paradossi che negli ultimi decenni stanno caratterizzando la formazione delle nuove generazioni. Se da un lato ciò ha prodotto e veicolato nuovi contenuti disciplinari e nuove metodologie, dall’altro ha innescato una vera e propria emergenza educativa.

Sebbene oggi l’educazione ad una cittadinanza attiva non possa più essere scissa dall’educazione ambientale, alimentare e, più in generale, alla salute consapevole e responsabile, l’adeguamento dei programmi scolastici, degli obiettivi e delle finalità viene sempre più spesso gestito attraverso politiche governative volte all’appiattimento dei livelli di conoscenze, competenze e abilità degli studenti di ogni ordine e grado. Ciò si traduce in realtà, aldilà delle tante e belle parole, in un abbassamento degli obiettivi, in nome di una pseudo democraticità dell’istruzione. Questo modus operandi viene applicato non solo ai singoli contenuti disciplinari, ma influenza l’intera funzione educativa dei docenti. 
Che valore la società attribuisce oggi all’apprendimento, al pensiero divergente, al merito e all’impegno scolastico? La formazione degli studenti risulta in linea con le nuove esigenze culturali? E soprattutto la cultura è ancora considerata un valore imprescindibile su cui formare la propria personalità? Sono tutti interrogativi legittimi a cui però non sempre riusciamo a dare una risposta semplice ed univoca.

Nonostante il supporto delle nuove tecnologie, la formazione degli studenti, soprattutto in ambito scientifico, presenta delle forti criticità. Non di rado infatti accade che l’educazione alimentare venga scissa da quella ambientale, che docenti diversi trattino gli stessi argomenti veicolando teorie contrastanti spesso slegate dalle acquisizioni degli studi più recenti, che la letteratura a cui si fa riferimento sia visibilmente obsoleta o che contenuti “sensibili” vengano trattati in modo superficiale e frettoloso per l’oggettiva mancanza di tempi, strutture e mezzi adeguati (problematiche che contraddistinguono e affliggono la scuola italiana oggi più che mai). In questo modo le nuove acquisizioni della ricerca scientifica non sempre vengono veicolate secondo un progetto educativo continuo e diffuso
Qualcosa si perde per strada e molto spesso questo qualcosa non è di lieve entità. Il confine tra semplificare e banalizzare è molto sottile e non di rado accade che i risultati di studi scientifici vengano travisati perché tradotti e/o divulgati in modo superficiale. Per questo motivo diventa quanto mai necessario fondare una vera e propria etica della comunicazione scientifica (e non solo).

Negli ultimi anni stiamo inoltre assistendo ad un fenomeno tanto proficuo quanto preoccupante: l’accesso pressoché illimitato alle informazioni veicolate attraverso il web, i social networks e i media classici quali stampa, radio e tv. Alla democraticità dell’informazione, che fa sì che tutti gli utenti alfabetizzati possano accedere ad un certo tipo di contenuti, si oppone l’uso il più delle volte propagandistico e commerciale che si fa di tali contenuti da parte di chi li veicola, seguito dalla ricezione spesso passiva, indiscriminata, semplicistica dell’utente medio che li recepisce e che poi a sua volta li condivide, innescando un circolo vizioso da cui non è facile uscire. Tale condivisione segue spesso lo schema “copia e incolla”, un automatismo pericoloso che viene attuato sia secondo una dinamica orizzontale (nel gruppo dei pari) che verticale (secondo un processo di inculturazione). La discriminante tra la cultura fai da te e quella basata su prove di evidenza scientifica consiste proprio nella facoltà di poter discernere e utilizzare in modo corretto e proficuo la valanga di informazioni da cui siamo letteralmente subissati quotidianamente. Solo l’utente esperto, consapevole e responsabile è infatti in grado di oltrepassare il confine della passiva ricezione, usando come chiave il pensiero critico.

La generazione dei “nativi digitali” figlia del Duemila (quella che spesso in altre sedi ho definito “generazione copia e incolla”) vive il paradosso di avere molte più risorse culturali a disposizione, a cui si accede con estrema facilità, ma una minore abitudine all’utilizzo critico. Spesso tale abitudine agli automatismi e alle eccessive facilitazioni si traduce in una minore attitudine al pensiero indipendente, data l’ormai provata retroazione della presenza/assenza di determinati stimoli ambientali all’apprendimento sulle capacità cognitive, processo che innesca un pericoloso feedback negativo. Soprattutto il campo della medicina, della farmacologia e del complesso e articolato ambito della nutrizione sono stati investiti dalla “globalizzazione dell’informazione”, il che ha avuto come diretta conseguenza l’accesso ai contenuti disciplinari, riservati fino a qualche decennio fa solo agli adepti e agli specialisti del settore, a tutti gli utenti del web. Se da un lato ciò ha reso il cittadino più curioso e più motivato ad apprendere e ad informarsi, dall’altro, in mancanza di un background culturale specialistico, l’utente resta disarmato di fronte alla vastità delle informazioni a disposizione spesso in contraddizione tra loro. Scuole di pensiero, programmi dietetici e terapeutici, metodi e approcci diversi nell’analisi delle abitudini alimentari, propagandati e/o confutati attraverso i media, lasciano il consumatore privo di adeguata formazione scientifica letteralmente disorientato, in quanto sprovvisto dei mezzi adeguati per poter selezionare le fonti in modo proficuo, farne una lettura consapevole, per poter poi apprendere in modo critico.

Un apprendimento di questo tipo è possibile solo attraverso i canali istituzionali, luoghi in cui la conoscenza veicolata è frutto di studi, ricerche e metanalisi validate dalla comunità scientifica internazionale e in continuo aggiornamento. Il fatto che il campo dell’alimentazione e della nutrizione sia oggi letteralmente preso d’assalto da specialisti del settore, operatori sanitari, agronomi, giornalisti, esperti di comunicazione, gastronomi, sociologi, psicologi, appassionati della materia e semplici curiosi di turno, testimonia il forte interesse scientifico, culturale e commerciale che tali studi hanno prodotto e stanno producendo. Il dibattito tra medici, nutrizionisti, dietisti e altre figure professionali (in ambito sanitario e non) è attualmente molto vivace e caratterizzato a volte anche da toni accesi, il che testimonia che gli studi sono in fieri e molto resta ancora da ricercare, comprendere, apprendere e comunicare nel modo più appropriato. Solo attraverso la conoscenza, infatti, possiamo liberarci della paura e della diffidenza verso l'ignoto. Comprendere, infatti, significa dissolvere i dubbi, osservando la natura con occhi attenti e rinnovata sensibilità.

Fortunatamente stiamo assistendo ad una vera e propria rivoluzione della e nella ricerca scientifica, caratterizzata da un approccio per quanto possibile interdisciplinare, proiettato verso l’orizzonte della transdisciplinarità. Ciò permette di evitare di cadere nella “trappola” dell’iperspecializzazione che, focalizzando l’attenzione sui dettagli, fa correre il rischio di perdere di vista la visione globale e le interconnessioni tra le parti. Il metodo dovrebbe essere quello di trattare un argomento da almeno due prospettive diverse ma complementari (ad esempio quella delle scienze biomediche e quella delle scienze umane), tentando poi una reductio ad unum prodotta dalla convergenza dei linguaggi delle diverse discipline, indagate con approccio sistemico. Ci si riferisce in particolare a quanto auspicato da Thomas Kuhn quando sosteneva la necessità di scienziati/filosofi bilingue, in grado cioè di operare secondo una visione transdisciplinare, liberi dai confini dei linguaggi specifici delle loro stesse discipline1. È ciò che Francesco Bottaccioli definisce “sguardo sistemico”, quando, alla luce delle acquisizioni della psiconeuroendocrinoimmunologia e dell’epigenetica, sostiene che occorre “evidenziare il fondamento comune delle cosiddette scienze della vita e delle cosiddette scienze dell’uomo”, in quanto intrinsecamente connesse, “non separabili, e quindi non studiabili isolatamente l’uno dall’altro”2. La necessità della transdisciplinarità è stata ben evidenziata anche da Fabio Marzocca che, operando una breve sintesi diacronica, partendo dal contributo dello psicologo Jean Piaget fino ad arrivare alle riflessioni del filosofo della scienza Ervin Laszlo e del fisico Basarab Nicolescu, sostiene “la necessità di una cooperazione tra le discipline”3. In particolar modo chiarisce che “le discipline sono una necessaria auto-limitazione introdotta nella scienza, ma i loro confini dovrebbero essere considerati permeabili, espandibili e trasferibili. Solo quando siamo in grado di superare questi limiti, allora la conoscenza potrà allargarsi oltre i confini disciplinari”. Non è un caso che per spiegare le differenze tra i termini multidisciplinare, interdisciplinare e transdisciplinare, Marzocca utilizzi una sorta di “esemplificazione gastronomica”. L’esempio di un primo banchetto in cui ogni ospite porta il piatto che ritiene opportuno, senza alcun accordo con gli altri invitati, di un secondo in cui si trovano piatti diversi, dal momento che ogni invitato sa in anticipo ciò che gli altri non porteranno, e di un terzo in cui tutti gli ospiti hanno collaborato alla preparazione delle pietanze, utilizzando gli ingredienti e le risorse professionali a disposizione, indicano rispettivamente l’approccio multidisciplinare, interdisciplinare e transdisciplinare. Dalla semplice giustapposizione si passa ad una suddivisione di competenze, per arrivare poi ad un vero e proprio lavoro di squadra, in cui l’apporto specifico del singolo non è più riconoscibile nel lavoro finale e in cui nessuna professionalità avrà la leadership4. E non è un caso che le nuove frontiere della ricerca scientifica in campo biomedico (e non solo) stiano proprio indagando contenuti transdisciplinari quali epigenetica, PNEI, nutrigenetica, nutrigenomica, neuroscienze e sensorialità, ambiti in cui la figura dello scienziato bilingue di cui parlava Khun è diventata indispensabile.



1 KHUN T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, (trad. it.), Einaudi, 1978

2 BOTTACCIOLI F., Epigenetica e Psiconeuroendocrinoimmunologia, Edra, 2014, p. 155

3 MARZOCCA F., Il nuovo approccio scientifico verso la Transdisciplinarità, Atopon, 10, Mythos, 2014, pp. 8-9


4 MARZOCCA F., op. cit., 2014, pp. 18-22

martedì 2 ottobre 2018

Fare educazione ambientale oggi

Molto spesso mi ritrovo a riflettere sul modo in cui si fa educazione ambientale oggi nelle scuole italiane.
Se è vero che l'educazione ambientale, così come l'educazione alimentare, non è una disciplina ben delimitata, non è affatto vero che è demandata ai soli docenti di scienze. I moduli presenti nelle linee guida del Ministero dell'Istruzione fanno infatti parte di tutti i testi di geografia che ho utilizzato. Fortunatamente si sta dando sempre più spazio ai contenuti relativi alla geografia ambientale, il cui studio è ormai imprescindibile. Tutela delle acque e della biodiversità, alimentazione sostenibile, smaltimento dei rifiuti, green economy, cambiamenti climatici e dissesto idrogeologico sono solo alcuni dei nuclei su cui docenti e studenti lavorano e dovranno lavorare anche in futuro.
In quanto docente di liceo e divulgatore scientifico, posso affermare di aver sempre trattato con i miei allievi tematiche legate alla sostenibilità ambientale anche e soprattutto da un punto di vista etico, sociale, antropologico, economico, alla luce delle evidenti criticità che purtroppo l'uomo ha provocato e sta provocando danneggiando interi ecosistemi.
Il fatto che educazione ambientale e sviluppo sostenibile non siano una vera e propria disciplina scolastica lo considero un fattore positivo più che una criticità, in quanto si è notato già da tempo che irrigidire contenuti nei confini di specifiche discipline non stimola la formazione del pensiero critico. Fortunatamente l'approccio allo studio sta diventando sempre più interdisciplinare. Segmentare i contenuti in singole discipline è una comodità esclusivamente didattica, che a volte può avvantaggiare il docente ma di certo non gli studenti, perchè non li aiuta ad operare confronti, inferenze, ad utilizzare il pensiero divergente, a studiare in modo critico e consapevole.
Quello che cerco di fare da una decina di anni è superare anche l'approccio interdisciplinare tendendo verso la transdisciplinarità, ambito in cui gli apporti delle singole discipline e dei singoli divulgatori non sono più distinguibili. Non è facilissimo, ma è molto stimolante. E' proprio per questo motivo che, dopo una laurea in lettere classiche, ho scelto come seconda laurea una facoltà scientifica. Senza un doppio background non si può insegnare con approccio sistemico, ma si resterà sempre confinati nella multidisciplinarità.
Molti, che di scuola non sanno nulla perchè non la vivono dall'interno, si lamentano del fatto che i docenti non abbiano una formazione adeguata per veicolare questi "nuovi" contenuti. In realtà questi contenuti non sono affatto nuovi! Insegnare il rispetto dell'ambiente in cui si vive è ed è sempre stato compito di tutti gli educatori (genitori, nonni, insegnanti, amici, parenti, società), per cui non credo ci sia bisogno delle direttive del Ministero dell'Istruzione per formare i docenti su determinati contenuti. Esiste la libertà di insegnamento ed è proprio su questa libertà che poggia l'efficacia dell'attività dei singoli docenti. Anzi, credo che il politichese e il didattichese del linguaggio dei documenti emanati dai Ministeri (e non solo) non faccia altro che inaridire i contenuti, cristallizzandoli dentro paroloni e giri di parole... del resto la burocrazia italiana si alimenta anche di questo!